
Un piviale settecentesco del Museo diocesano di Pesaro
Simbolismo floreale e trame del sacro: un piviale settecentesco del Museo diocesano di Pesaro
La versione estesa dell’articolo di Filippo Alessandroni apparso, con lo stesso titolo, sul Dircefoglio n. 3
Le arti minori, ed in particolare quella dell’artigianato tessile, a causa del loro “specialismo” [1] fanno tradizionalmente fatica ad emergere all’interno di un contesto espositivo, sia per le evidenti difficoltà divulgative connesse all’argomento stesso, sia per la natura di questi oggetti, dei quali in molti casi si è completamente perduto il significato storico-rituale; tessuti che andrebbero osservati in ogni piccolo dettaglio della trama da occhio attento e mai frettoloso, come a volte ci capita durante una visita museale, disorientati dalla moltitudine degli oggetti esposti.
Questi manufatti artistici documentano la storia del costume, della religiosità e dell’economia nelle sue articolazioni sociali, sono prodotti di mani sapienti, cariche di una secolare esperienza affinata dall’incessante lavorio nel filare le trame dei tessuti, vuoi nella penombra di un’oscura bottega di sartoria, vuoi nell’appartato silenzio carico di contemplazione, di un’antica cella monasteriale.
E’ nei musei che si concentra gran parte del patrimonio tessile antico, ed in particolare in quelli diocesani o di arte sacra; questi luoghi infatti, per loro natura conservano ed espongono vesti liturgiche di rara bellezza, e ci offrono la possibilità di scoprire attraverso i raffinati intrecci decorativi dei paramenti, molteplici significati di natura simbolica non immediatamente comprensibili.
E’ il caso di un piviale o mantello da cerimonia, conservato nel Museo diocesano di Pesaro, realizzato in damasco broccato e armato con la tecnica del gros de Tours, dal nome della piccola città manifatturiera francese, dalla quale questa lavorazione si diffuse nel XVIII secolo, giungendo anche nell’Italia centrosettentrionale [2].
Segnalato tra i beni appartenenti alla dotazione liturgica della Cattedrale pesarese di Santa Maria Assunta [3], è menzionato all’interno di un documento d’archivio del 1936, redatto dal proposto capitolare don Enrico Sarti che, nell’Inventario del Reverendissimo Capitolo della Cattedrale di Pesaro (c.56, n.2) lo ricorda con queste parole: «Piviale verde broccato colori oro-argento, disegno a fioroni e galloni argento, fodera di tela verde senza stola – ottimo stato» [4].
La terminologia dell’abito sacro va ricollegata al termine latino pluvialis, avanzando l’ipotesi che questo mantello liturgico potesse originariamente servire per proteggersi dalle intemperie, nel corso delle celebrazioni che si svolgevano al di fuori delle chiese, come nel caso delle processioni.
L’aspetto della veste, che sembra derivare dalla cappa monastica, è quella di un mantello con forma semicircolare aperto sul davanti, lungo quasi fino a terra e provvisto di uno scudo ornamentale sulla schiena; durante il Medioevo questa morfologia subisce alcune modifiche quando il cappuccio, una volta persa la funzione riparatrice originaria e data la diffusione di questo indumento adottato dal clero regolare anche all’interno degli edifici sacri, si riduce fino a divenire un semplice triangolo di stoffa decorativo.
A seguito della riforma tridentina la foggia di queste vesti viene ulteriormente codificata nella forma e nel significato specifico all’interno dell’uso ecclesiastico, grazie all’opera intellettuale di un personaggio cardine del secolo, quale il santo milanese Carlo Borromeo, fautore nel 1577 dell’opera Instructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae, un trattato precettistico sull’architettura delle chiese e sul modo adeguato di arredarle [5].
Significativo il fatto che in quest’opera, vengano indicate con precise annotazioni le caratteristiche dei parati liturgici, riconosciuti quali elementi simbolici di assoluta importanza all’interno di una dimensione rituale dell’arte.
Esistono nei musei italiani splendidi esemplari di questa tipologia tessile che, grazie ad una affinata tecnica artigianale nel corso del tempo, si è arricchita con i più svariati motivi ornamentali, sia a carattere figurativo con la presenza di scene sacre, sia con raffigurazioni zoomorfe e fitomorfe, per giungere nel XVIII secolo, al trionfo del naturalismo, impreziosito da intrecci di ghirlande e tralci floreali, con tessuti caratterizzati da effetti cangianti, ottenuti mediante l’uso del fondo e del controfondo e con diverse tipologie di trame lanciate, come nel caso del piviale conservato nel Museo diocesano pesarese [6].
Il cromatismo di fondo che caratterizza il parato, un bel verde erba cangiante, non è casuale; questo colore nella liturgia della Chiesa identifica la vita del tempo ordinario o della quotidianità feriale, ma è anche nel mondo antico, il colore della rigenerazione e della rinascita primaverile, una rinascita poi assimilata nel linguaggio simbolico del primo Cristianesimo, attraverso il mistero della croce, quale segno tangibile della carità, la virtù teologale alla quale questo colore è stato associato [7].
Nella preziosità del filato in argento e oro, si manifesta inoltre il gusto per il decoro floreale che fonde sia elementi fitomorfi prettamente ornamentali, che indicazioni simboliche come nel caso della melagrana, frutto che spicca come pattern decorativo principale del tessuto in questione.
L’emblema della melagrana o melograno, fonda le radici in epoca antica e le origini geografiche del frutto, rintracciabili nei territori dell’Asia meridionale, ne suggeriscono una ricerca del suo significato simbolico nelle civiltà precristiane dell’area persiana dove questo frutto era indicativo dell’elemento genitrice femminile, con significati riconducibili alla sfera della prosperità e della fecondità [8].
Nella tradizione pagana dell’antica Grecia i suoi semi richiamano il mito di Proserpina, rapita e condotta nell’Ade da Plutone e del suo ciclico ritorno alla madre Cerere (divinità materna della terra e della fertilità) dopo l’inverno, in coincidenza con l’arrivo della stagione primaverile. A Roma la si trova sovente rappresentata nelle pareti di ville patrizie, tra vedute di ameni giardini fioriti, quale segno indicativo di prosperità, mentre nell’ebraismo il frutto è associato ai prodotti agricoli della terra e alla fertilità del Creato, ed è ricordato per questo motivo nell’Antico Testamento, come elemento riprodotto nelle decorazioni ornamentali delle vesti sacerdotali («Farai sul suo lembo melagrane di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto, intorno al suo lembo, e in mezzo disporrai sonagli d’oro un sonaglio d’oro e una melagrana, un sonaglio d’oro e una melagrana intorno all’orlo inferiore del manto», ES. 28, 33-34) [9].
La tradizione cristiana traendo la sua esegesi in epoca medievale da fonti bibliche come il Cantico dei Cantici, ne ha fatto un segno emblematico, accostabile sia a Cristo, dove la stessa pienezza feconda del frutto identifica il concetto della sua misericordia e il colore rubino dei suoi grani, simile al sangue, richiama l’estremo sacrificio mediante il quale si compie la salvezza dell’uomo, sia alla Vergine, dove il significato ultimo allude al tema della castità.
Entrambe le accezioni simboliche furono ampiamente accettate anche nell’arte figurativa e tradotte dagli artisti più rappresentativi dei secoli XV e XVI come Carlo Crivelli, Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci solo per citare alcuni esempi famosi. Ma il melograno spicca prepotentemente anche nelle composizioni di nature morte napoletane e olandesi del Seicento, dove la sua discreta presenza, amplificata dalla penombra del quadro e non più giustificata dalle tradizionali figure sacre, è accompagnata invece da altri frutti carichi di significati allegorici, che concorrono a farne emergere con maggiore pregnanza il suo simbolismo.
In ambito profano la melagrana è divenuta l’emblema della Concordia all’interno degli ambienti accademici e dei cenacoli intellettuali del Rinascimento, richiamando a sé il concetto dell’unità, rappresentata dalla scorza del frutto, all’interno della quale si confrontano nella dialettica le diverse parti, rappresentati dalla molteplicità dei grani riposti in essa. Così viene identificata da Cesare Ripa nel suo repertorio iconologico del 1593 [10], che la descrive come una donna con in mano un fascio di arbusti strettamente legati, tra cui spiccano i pomi delle melograne dischiusi.
Lo stesso tema infine, ripreso successivamente in ambito cristiano cattolico, diviene una metafora della Chiesa capace di riunire in sé i suoi figli attraverso l’amore per Cristo, ed è in questo ultimo senso che possiamo leggere la presenza del melograno nel piviale diocesano, non solamente come frutto ornamentale della trama decorativa del parato, quanto piuttosto l’elemento identificativo del suo significato nell’universo concettuale e simbolico cristiano.
Note
[1] Antiche trame, nuovi intrecci. Conoscere e comunicare le collezioni tessili, a cura di M. Costantini Cuoghi, I. Silvestri, C. Stefani, Spoleto 2014, p. 72.
[2] D. Devoti, L’arte del tessuto in Europa, Milano 1974, p. 28.
[3] R. Bonito Fanelli, Le collezioni di Palazzo Mosca a Pesaro. Tessuti e merletti, Modena 1989, p. 30.
[4] ASDP, Fondo Gabucci, Busta 2 “Pesaro sacra”, 0.2.2.1, Inventario del Rev.mo Capitolo della Cattedrale di Pesaro fatto dal Rev.mo Proposto Mons. don Enrico Sarti, 1936, c.56, n. 2.
[5] C. Borromeo, Instrumentum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, Milano 1577, (disponibile a: http://www.memofonte.it/home/files/pdf/scritti_borromeo.pdf)
[6] P. Scott, Il libro della seta, Milano 1993, pp. 189-90.
[7] R. Gilles, Il simbolismo nell’arte religiosa, Roma 1993, pp. 162-4.
[8] A. Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano 1998, pp. 327-35.
[9] S. Imparato, Le piante nel vangelo: il melograno, da “La vita in Cristo e nella Chiesa”, anno LVII, 4 (disponibile a: http://www.sanpietroepaologerenzano.it/pdf/TemiMese/Luglio08.pdf).
[10] C. Ripa, Iconologia, Einaudi, Torino 2012 p. 46.
Filippo Alessandroni è responsabile dell’Archivio Storico e del Museo Diocesano di Pesaro: lavora per il Museo dal 2007 con compiti di cura delle collezioni, eventi, mostre e in ambito catalografico. Nato a Pesaro nel 1979 si è laureato in Conservazioni dei Beni culturali e specializzato in Beni Storici e artistici all’Università di Bologna. Vive e lavora a Pesaro dove collabora con enti e istituzioni del territorio alla promozione della ricerca in ambito museale e sul patrimonio culturale ecclesiastico.

