
L’estate in un granello di zucchero: i bomboloni di Serafino
Un cristallo di zucchero come madeleine: seguendo un ricordo d’infanzia laDirce incontra Serafino Serafini, pasticciere a Pesaro dal 1956
Pesaro, maggio 2017. Nella mia memoria il senso della sabbia tra le dita dei piedi – libertà, fine della scuola, è tornata l’estate – ha lo stesso scricchiolio dei cristalli di zucchero intorno ai bomboloni, e il sapore giallo della crema pasticciera che li farcisce (i bomboloni, non i cristalli).
Aaalla crema i bomboloniiiiiiii – aaal pomodoro la pizzaaaaaaaa: qualcuno ha creato un gruppo su Facebook in onore del richiamo dei venditori ambulanti che percorrevano la spiaggia con il banchetto bianco a tracolla. I bomboloni che colorano la mia infanzia, però, abitano al Porto, non al mare. Precisamente in via Antonio Cecchi, dove dal 1956 la Pasticceria Serafino sforna dolci e salati che, non è un’iperbole, hanno segnato il gusto di un’epoca.

Serafino Serafini
Come tanti della sua generazione Serafino Serafini, classe 1931, è uomo di poche parole. È la seconda volta che mi capita di parlare di me così a lungo, si sorprende al termine della nostra conversazione. E per me è la prima intervista, su circa un migliaio in quasi vent’anni, nel retro di una pasticceria: gliel’ho detto, a Serafino, che ammettendomi eccezionalmente nel suo laboratorio mi ha fatto davvero un gran regalo. Molto ha contato, credo, la mediazione ideale di mio nonno Sergio Corsini, che di Serafino fu fornitore di uova e soprattutto amico. (Prima o poi dovrò scrivere qualcosa sullo zabaione fatto con le uova del nonno).
Non vedevo l’ora di conoscerti. Eh? Sì, Sergio mi parlava sempre di te. Così mi accoglie Giorgio, il figlio maggiore di Serafino. Flash. Gulp. Un lampo e sono nella polleria dei nonni, a cinquanta metri da qui; nell’aria annuso il profumo della merenda mattutina di molti anni fa. Guarda cos’ho trovato, c’è la firma di tuo nonno. Due fatture per “uova in cartoni” datate 1980: il periodo nel quale Serafino, anche per offrire ai figli un lavoro meno faticoso, intraprese la breve avventura di un laboratorio di pasticceria semi-industriale. (Contro tutte le regole il racconto parte dalla metà della storia, ma ho deciso che questo pezzo avrà l’andamento dei ricordi, che fanno un po’ come vogliono e si presentano in ordine sparso). I clienti, anche importanti, non mancavano… Ma mio padre capì presto che la sua vita era qui, aveva nostalgia della pasticceria e dopo pochi anni tornò al suo primo lavoro.
La nostalgia: come avrebbe potuto essere altrimenti per uno che giusto settant’anni fa (1947) entrava, appena sedicenne ma già in possesso di una certa esperienza al Bar-Pasticceria Gino di via Branca, il più rinomato della città, dove Gino Filippetti meravigliava i suoi concittadini con le creazioni apprese a Roma, al Caffè Rosati. Ho cominciato a undici anni, presso un pasticciere che riforniva il circolo degli ufficiali inglesi. Gli unici che potevano disporre, in tempo di guerra, di zucchero, uova, farina. Eccolo, Serafino, nel suo regno di impastatrici, fruste e sac à poche, un reame lindo e ordinato nel quale i ferri del mestiere stanno sull’attenti, pronti a scattare agli ordini del maestro. Da Gino sono rimasto dieci anni. Mi alzavo tutte le mattine alle tre e da San Pietro (oggi Villa Fastiggi, frazione di Pesaro a circa 6 km dal centro storico) venivo giù a piedi. Si lavorava 16-18 ore al giorno, non c’erano ferie né feste. Tornavo alle tre del pomeriggio, mangiavo, riposavo un paio d’ore e via, di nuovo al lavoro dalle 18 alle 22. Certe paste facevamo… un sogno.
La storia di Serafino continua più golosa che mai a pagina 2 🙂
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