Bologna, il Mercato di Mezzo - ph Chiara Rabbiosi
Blog,  Il Dircefoglio

Mercati tra memoria e rigenerazione urbana

Da spazio commerciale popolare a luogo privilegiato di un consumo consapevole, raffinato, quasi d’élite: come cambiano i mercati cittadini

 

La parola “mercato” in me evoca un insieme disordinato di colori, rumori, odori. Folla di persone e verdure che rotolano. La prima cosa che mi viene in mente è infatti il mercato rionale all’aperto. In particolare l’immagine è quella del mercato del quartiere in cui sono nata. Siamo in una grande città del nord. Quella che tutti associano alla ricchezza e all’assenza di socialità, insomma. Stereotipi che sono smontati nel mercato del quartiere un po’ periferico al quale sto pensando. Signore, signori, bambini e bambine che si raccontano storie di vita ordinaria, urlandole di qua e di là dai banchi, sussurrandole all’orecchio in mezzo alla strada immersi in una fiumana di gente. Pidgin di dialetti italiani e lingue extracomunitarie. A volte in quel mercato non ci voglio nemmeno andare: troppi i volti noti e vogliosi di interazione rispetto a quanto possa sopportare nelle giornate di malumore. Preferisco andare al supermercato. Nel mio quartiere c’è un supermercato di una nota insegna nazionale. È stato costruito alla fine degli anni ’60 mano a mano che il quartiere di periferia cresceva e con lui crescevano i condomini e quindi gli abitanti. Mentre faccio la spesa incrocio lo sguardo di cassiere e commessi che lavorano lì da 30 anni. Interagire non fa parte del rituale, anche se spesso, a dire il vero, accade.
Il mercato e il supermercato del mio quartiere per me fanno tutt’uno. Hanno funzione di “esercizio di vicinato”, anche se magari non ricadono proprio nella definizione formale del termine. In questa città ci sono anche altri tipi di mercati. Ad esempio, quelli coperti: il Comune di Milano ne possiede 24. Sono stati costruiti in parte tra le due guerre e in parte negli anni ’50, prima della diffusione delle strutture della grande distribuzione commerciale. Oggi, entrando in un Mercato Comunale coperto, a Milano, sembra di fare un salto indietro nel tempo di qualche decennio. Ci sono le drogherie – senza prodotti bio! –, qualche banco della carne, la latteria, cose così. Il tutto, spesso, un po’ in decadenza, inclusi commercianti, inservienti e avventori.

Milano Mercato del Suffragio

Negli ultimi anni però, qui come altrove, i mercati coperti sono stati messi al centro di abili operazioni di rigenerazione urbana associata a termini quali “riqualificazione commerciale”, “valorizzazione patrimoniale”, “recupero dei mestieri artigianali”, “branding urbano”. È il caso del Mercato del Suffragio a Milano, del Mercato di Mezzo a Bologna, del Mercato Centrale a Firenze, senza contare gli innumerevoli esempi europei dove questa tendenza è iniziata anche prima. Questi mercati coperti riqualificati sono molto molto carini: innanzi tutto non puzzano. Non sono nemmeno tanto rumorosi quanto quelli di cui accennavo all’inizio, e nemmeno squallidi come i mercati comunali rimasti fermi nel tempo. E poi tutto è buonissimo e “sano” e etico. Che bravi consumatori quelli che acquistano qui: attenti a quello che si mettono in bocca che non solo è squisito, ma ha anche la giusta componente di grassi, zuccheri e proteine. Prodotti che provengono da allevamenti biologici, lavorati da artigiani sopraffini, impacchettati in confezioni di design. Epperò… la merce è molto molto cara. Giustamente, vista la qualità delle filiere produttive, distributive e di consumo che essa esprime. Inoltre noto una certa affinità tra segni, merci, persone. I commercianti qui sono colti e affabili. I loro vestiti non sono stati scelti, mi pare, sui banchi del mio mercato rionale a una bancarella di abbigliamento economico e senza troppo stile. Lo stesso si può dire del pubblico, che ha le stesse maniere, gli stessi abiti, lo stesso gusto. Ma insomma anche andare al mercato è diventata una forma di consumo culturale altamente distintiva? Chissà tra trent’anni quali saranno le memorie collettive intorno a questi luoghi, ad alto valore “di mercato” in senso economico, e sempre meno “mercato”, nel senso di spazio commerciale popolare.

Chiara Rabbiosi

 

 


Chiara RabbiosiChiara Rabbiosi. Mi occupo di luoghi e di turismo. Di relazioni tra persone, città, immagini e souvenir. Le cose mi piace osservarle così come accadono (secondo un metodo che si chiama etnografia). Per capire i massimi sistemi credo sia importante avere una buona comprensione del piccolo. Lavoro all’università. Vivo in movimento.

 

 

Storie di luoghi, persone, sapori: raccolte in cucina, all’osteria o per le strade di cento paesi. Storie di ieri e anche di oggi, raccontate con il cuore. Perché ciò che la memoria custodisce è eterno.

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