
La tavola della vita. Un regalo di Natale
“Non è possibile vita spirituale senza consapevolezza del cibo, senza attenzione al cibo, senza che si accenda l’arte del mangiare, senza che il pasto sia un rito creatore di senso, senza un’esperienza di condivisione e di comunione intorno alla tavola”.
Enzo Bianchi, 2016
Oggi è il giorno del Solstizio d’Inverno: da domani la luce, come scrive Fabio Tombari ne I Mesi, imprende a salire, e anche se di poco le giornate cominciano ad allungarsi.
In questa idea di luce ha le radici la festa del Natale: dunque, pubblico oggi i miei auguri, affidati alle parole di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose (Biella), apparse sul Dircefoglio del Natale 2016*.
Proprio a Bose, nell’estate del 2005, durante un tempo di riposo ha preso forma l’idea di Un paese e cento storie, il progetto di valorizzazione sostenibile del territorio “intorno alla tavola” che ha accolto la prima apparizione pubblica della Dirce. Mai, però, avrei osato immaginare che un giorno Enzo Bianchi e laDirce si sarebbero incontrati sulla carta stampata. Per me, per tutti noi del Dircefoglio è stato davvero un onore ospitare le sue parole sagge e preziose, nelle quali torna tra i tanti il tema – antropologico prima che religioso – del pasto come «rito creatore di senso», l’attenzione al cibo e all’arte del mangiare come momento di profonda comunione con gli uomini e il creato. La commensalità nutre ed esprime la convivialità scrive Bianchi, e la tavola di Natale resta forse più di ogni altra la tavola della festa, il luogo privilegiato dello scambio, della condivisione in un clima – almeno per qualche ora, nonostante tutto – di speranza e serenità.
Ancora una volta grazie di cuore a Enzo Bianchi e alla Comunità di Bose per averci consentito di riprodurre questo scritto.

Enzo Bianchi – La tavola della vita
“Restando fedeli alla terra, cerchiamo le cose dell’alto”: questo versetto di un inno della Liturgia delle ore esprime bene la postura che io cerco di assumere, seppur tra difficoltà e fatiche. Nessuna evasione e nessuna indifferenza nei confronti di questa terra, ma la consapevolezza di esserne responsabile, di essere chiamato a darle voce, ad apprestare tutto perché possa essere trasfigurata in terra nuova. D’altronde, nell’autentica tradizione cristiana l’universo non è antropocentrico ma è una comunità di co-creature, tra le quali l’essere umano è un animale come gli altri e insieme agli altri, ma dotato di facoltà proprie, quali il linguaggio e la ragione, che lo abilitano a essere responsabile, capace di dare vita o morte a tutte le altre creature. L’umano, ospite di questa terra, ne è anche oikonómos, economo, ed è anche capace di celebrarla, dunque liturgo, poeta che sa farsi voce di ogni creatura.
Non è possibile vita spirituale senza consapevolezza del cibo, senza attenzione al cibo, senza che si accenda l’arte del mangiare, senza che il pasto sia un rito creatore di senso, senza un’esperienza di condivisione e di comunione intorno alla tavola. È significativo che nell’ebraismo l’incontro con Dio avvenga mediante un pasto: Dio si rivela ad Abramo alle querce di Mamre dove fu imbandita una tavola; Mosè e gli anziani incontrano Dio sul Sinai dove “mangiarono e bevvero”; al cuore del cristianesimo c’è la tavola eucaristica.
La tavola di casa mia aveva una caratteristica: era sovente un luogo di accoglienza dello sconosciuto. La mia casa era al centro del paese, davanti alla chiesa e all’unica piazza, quindi era il luogo di arrivo di zingari, mendicanti, venditori ambulanti. Proprio loro erano gli sconosciuti invitati a tavola, perché mio padre ripeteva: “È vergognoso dare da mangiare sulla porta!”. Così fin da piccolo ho mangiato accanto a sconosciuti, spesso poco decenti, che a volte mi facevano paura, altre volte mi allietavano, come i “ramai” montenegrini. Ascoltavo le poche parole scambiate, e imparavo ad accettare uno sconosciuto accanto a me. Tutti potevano essere ammessi a quella tavola, povera ma sempre capace di offrire pane, vino, verdure e a volte anche formaggette di capra.
A volte mi domando perché oggi non siamo più capaci di accogliere a tavola uno straniero, uno sconosciuto. Occorre constatarlo: oggi, in un tempo in cui abbiamo cibi abbondanti sulle nostre tavole, preferiamo organizzare cene di Natale per i poveri e gli stranieri in parrocchia, purché gli sconosciuti restino tali e siano tenuti lontano!
Enzo Bianchi… La sua comunità d’origine la rifonda, a Bose, su quelle regole della conoscenza comunitaria che ha appreso sulle colline libere della gioventù e nel cibo trova un tema indispensabile per il farsi del vivere insieme. Compartire il pane è compartire la fede, condividerla con i fedeli. Le stagioni del pane e del vino sono il tratto concreto più traducibile del tempo dell’eterno ritorno che trascorre senza soluzione di continuità dalle colline di casa alla Serra d’Ivrea.
Piercarlo Grimaldi, “Laudatio per Enzo Bianchi” – ottobre 2016
Un’altra tavola che vivo ormai da più di cinquant’anni è quella del monastero: ciò che è tipico del pasto monastico è il regime della parola. In primo luogo si sta in silenzio, almeno un pasto ogni giorno, a volte ascoltando letture spirituali, in particolare dei padri della chiesa. Mangiare in silenzio non è negazione della commensalità, ma esercizio di consapevolezza del cibo che si mangia, del perché e del come si mangia. È esercizio per conoscere e misurare l’aggressività che abita ogni persona e che nell’atto dell’assumere cibo facilmente emerge e si scatena. È situazione nella quale si assume cibo per vivere, attraverso le vivande, e si assume anche il cibo necessario alla vita spirituale. Il monaco non ignora che nella Bibbia è attestata più volte l’immagine del “mangiare il libro”, che significa fare proprio, fino a digerirlo nelle viscere, ciò che sta scritto come parola di Dio. Il silenzio del pasto monastico non è mai vuoto, a volte è abitato anche dall’ascolto della musica: si ascoltano insieme gli stessi suoni, le stesse armonie, le stesse parole. Sì, può sembrare un esercizio strano, ma lo ritroviamo nelle varie forme di monachesimo, da quello buddhista a quelle più recenti.
È significativo che quando si mangia insieme gli sguardi si incrociano, i volti si studiano e si contemplano e la parola di ognuno prende il suo peso: allora si può dire che il pasto è stato una celebrazione, un’arte del mangiare. Mangiare insieme insegna a vivere bene insieme e di conseguenza anche a mangiare bene. La commensalità nutre ed esprime la convivialità.
Il cibo condiviso è anche consolazione nelle prove e forse noi monaci, proprio grazie alla solitudine vissuta in comune, siamo capaci di viverlo così, in semplicità e sobrietà.
Enzo Bianchi
*Dalla lectio magistralis tenuta a Bra (CN) il 6 ottobre 2016, in occasione del Conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo.

