
La palèta del av Giosuè
Gli oggetti possiedono una memoria? Nelle venature levigate di un rudimentale attrezzo per tagliare la polenta si legge la vita di quattro generazioni

Settimana scorsa mi sono stati depositati in casa alcuni scatoloni che avevo abbandonato, qualche anno fa, in un garage. Di uno solo ricordavo: quello dentro cui per un certo tempo ho gettato alla rinfusa una serie di oggetti etichettati dalla mia testa e dal mio cuore come “importanti”. Tra questi ho trovato un manufatto di legno che deve essere stato parecchio usato; è persino levigato. In alcuni punti è sbrecciato. Un mio amico ha detto che dall’aspetto potrebbe sembrare un lecca lecca per un nano da giardino.
Mi sono ricordata: me l’ha dato qualche anno fa mia madre dicendomi di nasconderlo prima che fosse buttato. Si tratta infatti di uno dei pochi cimeli della mia famiglia paterna. “È la palèta dell’av Giosuè” (pronuncia Gesüè), dice mio padre, come se la cosa fosse scontata. D’accordo, ma che ci faceva questo tizio con questa pezzo di legno, bruttarello e rovinato per di più?!? BANALE. Ci tagliava la polenta. Secondo i rilevamenti degli ispettori della Commissione Jacini, un’inchiesta parlamentare realizzata nel 1888 dal (quasi) nascente stato unitario sulle condizioni dei ceti rurali in Italia, i contadini settentrionali mangiavano fino a un chilo di polenta di meliga (graminacea simile al granturco) al giorno mentre il pasto serale consisteva in una minestra densa di cereali, legumi e verdure, accompagnate da un po’ di formaggio e di vino di bassa qualità.
Chissà quanta polenta ne ha tagliata l’av Giosuè con quella paletta, lui che era nato nel 1868 a Mellarolo, paese della bassa Valtellina che non ha mai avuto più di un centinaio di abitanti (e oggi ancora meno). Il mio papà, che di Giosuè è il nipote, è nato nel 1937 e si ricorda che la palèta è sempre stata in casa. Ancora per tagliare polenta. Mio padre, che prima di fare il vigile urbano a Milano ha fatto come suo nonno e suo padre il contadino d’estate e il muratore d’inverno, mangerebbe polenta ogni giorno (taragna, cünscia, o come viene, viene). Suo fratello Albino, che insieme al fratello maggiore Elio, aveva tagliato la corda nel 1951, a 23 anni, per emigrare in Argentina, trovava questo alimento un po’ limitante. Io questo zio l’ho incontrato 10 anni fa, laggiù, dall’altra parte del mondo. Il mio papà mi ha fatto portare delle preziosissime… castagne! E mentre lo zio Albino mi preparava un succulento asado di carne, mi diceva che a Mellarolo si mangiava sempre e solo polenta; castagne, patate e polenta.
Guardando quel tozzo di legno che è la palèta del av Giosuè oggi non vedo, ma sento; sento le mani ruvide del bisnonno e di mio padre, sento anche le schegge del manico sbrecciato, di un passato il cui ricordo mi sfugge, le cui competenze ho perso, ma anche le sofferenze, tra cui quelle legate a una quotidianità fatta sempre e solo di polenta. A me la polenta piace… di tanto in tanto. La mia polenta è un cibo di festa, condita con tanto formaggio, così tanto che poi fila; dei giorni d’estate, delle sagre, delle chiacchiere con gli amici. È tutto lì, in un pezzo di legno di betulla che qualcuno si è ricordato di salvare dalla stufa.
Chiara Rabbiosi. Mi occupo di luoghi e di turismo. Di relazioni tra persone, città, immagini e souvenir. Le cose mi piace osservarle così come accadono (secondo un metodo che si chiama etnografia). Per capire i massimi sistemi credo sia importante avere una buona comprensione del piccolo. Lavoro all’università. Vivo in movimento.

